Nel bel mezzo di un conflitto “dietro casa nostra”, una pandemia che – a dispetto di quanto sembri – è ancora qui tra noi, e uno schiaffo in mondo visione, ho (ri)trovato la gioia in Harry Styles.
Venerdì 1° aprile, durante la camminata mattutina con il cane, ho saltato a piè pari la puntata di Morning e la playlist del venerdì con tutte le nuove uscite, andando dritta come un treno su As It Was, il primo singolo del terzo disco di Harry Styles.
Dopo due ascolti (ma mi sarebbero bastati 30 secondi) ho scritto ad alcuni amici su WhatsApp che
Harry Styles tiene alta la bandiera dell’indie-rock
Era una provocazione, ma neanche troppo. As it Was è una traccia di 2 minuti e 47 secondi pensata, suonata e registrata bene, mixata e masterizzata meglio.
So di non essere l’unica adulta ad avere problemi con le nuove uscite musicali. Spesso mi ritrovo a essere eccitata per una prossima release di qualche band indie che andava particolarmente di moda tra il 2008 e il 2013, ma poi, a canzone uscita, qualcosa non torna. Sarà forse che il loro momento è passato, o sarà che c’è una naturale difficoltà a aderire alle nuove regole del mercato, ma sembra che il disegno resti incompleto.
Qualche giorno fa gli Arcade Fire hanno tirato fuori, quasi nell’invisibilità, due canzoni di ottima fattura, ma ho l’impressione che in molti non se ne siano neanche accorti ed io voglio ammettere senza vergogna di non averle ascoltate per più di due volte ciascuna. Ciò non vuol dire che il mio amore per una certa attitudine a fare musica o a certe sonorità sia scemato, anzi. Sento però che la strada ha bisogno di essere rimessa in sesto da qualcun altro. Voglio puntare sul cavallo vincente. Il cavallo di Troia, per essere esatti, che non può avere le fattezze di un uomo over 40 che ripete all’infinito la stessa canzone scritta venti anni fa, bensì un ex teen-idol di 28 anni che indossa bellissime camicette di pizzo.
Nel febbraio del 2012 mi trovavo su Twitter a fare una cosa che oggi sembra impensabile: guardare il Festival di Sanremo solo ed esclusivamente per riderne. Nessuno di noi era minimamente interessato alle canzoni o le reputava di valore (anche perché di base non lo erano).
All’epoca Twitter era una zona grigia abitata da millennials ironici e adolescenti in calore. Questi ultimi cercavano un contatto diretto con i loro cantanti preferiti. Twitter era Instagram. Era il campo di battaglia di beliebers, swifties e – soprattutto – di directioners.
Nonostante avessi una certa familiarità con le fans di Justin Bieber, fino a quella sera non mi ero mai imbattuta nelle fans dei One Direction, men che meno nella band stessa.
Gli hashtag di Sanremo erano invasi da quelle che noi cattivamente, definivamo “bimbominkia” e quando scoprii che si trattava di una boyband, restai quasi di sasso. Ma come? Ci avevate raccontato che le boyband facevano schifo. Mi avevate fatto vergognare per essere stata una fan dei Backstreet Boys (Nick, I LOVE YOU) e ora, dopo più di 10 anni, mi state dicendo che sono tornate di moda? Ero incredula e delusa allo stesso tempo, ma fu evidente sin da subito che la situazione era ben diversa da quella degli anni ’90.
Se da un lato non comprendevo cosa avessero di particolarmente speciale considerata la canzoncina sentita e risentita (What makes you beautiful), il fatto che praticamente camminassero sul palco senza mostrare particolari doti vocali o presenza scenica, dall’altro lato capii subito che proprio questa era la carta vincente: sovvertire l’idea di boyband (nei limiti del possibile, naturalmente). Inoltre, realizzai che uno di loro aveva attirato la mia attenzione senza fare nulla di particolare. E non perché fosse bello (gli mancava il ciuccio in bocca, per carità di dio), ma aveva quella cosa lì che dà il nome al programma che li ha lanciati. Ebbene sì, è lui o non è lui? È proprio lui: l’X-FACTOR. Quella cosa che non sai definire, non riesci a descrivere o specificare, ma sai che è importante, è diversa. È il fattore in più. Il fattore X che ti differenzia dal resto.
Dopo l’iniziale shock decisi di non ignorare o sminuire il fenomeno. Piano piano capii la fascinazione, ed era chiaro che Harry portava avanti la baracca, almeno nella percezione di noi over 25, extra-directioners. Sul palco non appariva mai fuori posto, impacciato o intimidito e nelle interviste era sempre pacato, simpatico, sorridente e riflessivo. Harry era il charming-one.
Piano piano iniziò anche a lanciare segnali di fumo al popolo dell’indie-rock. Inizialmente erano gli skinny jeans strappati, poi le amicizie con Alexa Chung e altri personaggi dell’hipsterismo sfrenato londinese, e infine i gusti musicali tendenti al rock. La musica stessa dei One Direction, dopo un primo album più convenzionalmente teen-pop, sembrava convertirsi in una forma ibrida, sempre col suffisso teen, di indie, folk e pop-rock.
La traiettoria della band è stata relativamente breve e sicuramente sfiancante per i protagonisti e nel 2015 hanno annunciato una forma paracula di scioglimento: lo hiatus. La pausa che si traduce in: non sappiamo come andranno le carriere soliste, quindi evitiamoci la figura di merda di dire che ci sciogliamo se poi dobbiamo torna’ a burattinare. Famo che diciamo che ci prendiamo una pausa (wink wink)
Da allora Harry ha iniziato a fare musica da solo e gli viene particolarmente bene. Ha deciso di recitare e lo ha fatto esordendo in un film di Christopher Nolan esibendo un talento più che discreto. Ha studiato meticolosamente la sua estetica, rivoluzionando la moda maschile mainstream insieme ad Alessandro Michele e GUCCI. Ha consapevolmente creato una public persona poco esposta, ragionata e soprattutto basata sul concetto di rispetto, educazione e gentilezza.
Harry Styles è a mio parere uno dei personaggi più positivi della cultura popolare.
Forse vi sarete accorti che era da un po’ che non pubblicavo.
Sin dall’inizio sapevo che sarebbe stato difficile, e non me ne sono fatta un grosso problema quando mi sono ritrovata sul punto di riprenderla senza riuscirci. Non ho mai smesso di pensare al prossimo articolo o di dedicarmi alla ricerca, ma ero spesso stanca dal lavoro, dalle altre faccende della vita e insicura delle mie conoscenze.
Tendevo a complicare invece che semplificare. Tendevo a cercare temi spinosi, invece che leggeri.
Proprio una settimana fa, parlando con una mia amica, dissi che forse quell’episodio avvenuto agli Oscar di cui sappiamo tutti mi avrebbe riportato a ripubblicare, ma non avevo preso in considerazione il fatto che che sin dall’inizio quell’episodio mi avesse provocato disagio e disgusto. Per carità, di qualche meme ho riso anche io e mi sono ritrovata a commentarlo per un paio di giorni, ma poi ho intenzionalmente provato a prendere le distanze, evitando l’argomento più possibile, nonostante la difficoltà posta dagli algoritmi social.
A quel punto, però, mi ero quasi imposta di ripubblicare, quindi venerdì ho buttato giù più di 1000 parole non sul fatto in sé, ma su quei momenti degli Oscar di cui nessuno aveva parlato. Eppure, tornavo sempre lì, a quel momento dannato. Era inevitabile e non mi piaceva. In un giorno ho cestinato tutto, mi sono seduta e ho provato a scrivere di altro, ma cadevo sempre nella trappola della complessità fino ad arrivare all’epifania:
ho accettato serenamente che di questi tempi dovrei provare a semplificare invece che complicare. Mi sono chiesta cosa mi avesse portato gioia e un po’ di positiva curiosità nella recente cultura pop. Ed eccoci qui.
Esattamente un anno fa vivevo un momento mentalmente ed emotivamente complicato (sì, ok: alzate la mano!) e parallelamente su YouTube veniva pubblicato il videoclip di un singolo estratto da Fine Line, il secondo album di Harry.
La canzone si intitola Treat People With Kindness, che altro non è che il suo motto, tanto da averlo stampato sul suo merchandising ben prima che diventasse il titolo di una traccia.
In quei giorni scombussolati, l’algoritmo di YouTube tendeva a riproporlo in home page e io cedevo sempre più che volentieri. Per chi non lo avesse visto, non tenterò neanche di descriverlo. Non riuscirei mai a rendere l’idea.
Il video, esattamente come la personalità di Harry, mi catturava in un modo che non so definire. Mi faceva sorridere, portandomi 9 volte su 10 a delle genuine e spontanee lacrime di gioia.
Ed io, esattamente un anno dopo, nel bel mezzo di un conflitto “dietro casa nostra”, una pandemia che – a dispetto di quanto sembri – è ancora qui tra noi, e uno schiaffo in mondo visione, ho (ri)trovato la gioia in Harry Styles.