C’è un disco che ho consumato durante la scrittura della mia tesi di laurea specialistica. Si intitola Babel ed è il secondo album della band inglese dei Mumford and Sons. Pubblicato nel 2012, fu un successo enorme che portò il gruppo a vincere il Grammy Award per Album dell’anno, consacrando la formazione alla fama mondiale e, conseguentemente, all’ingresso nel girone infernale di quello che i puristi vedono come il Girone del Rock Dozzinale; ma non preoccupatevi, sono in buona compagnia. A tenerli per mano ci sono Coldplay e U2.
Babel era un giusto mix di tranquillità e crescendo pop-folk nelle mie orecchie di laureanda. Non mi distraeva troppo da quello che stavo facendo e allo stesso tempo mi accompagnava gentilmente alla scrittura accademica dell’importanza culturale del video DICK IN A BOX dei Lonely Island.
Poi un giorno successe che tra le tante vittime dell’uragano Donald Trump ci fu proprio uno dei figli di Mumford - che poi figlio non è perché sono tutti amici, coetanei e non imparentati. Lui si chiama Winston Marshall e della band era il bangioista, fino a quel giorno di maggio 2021 in cui annunciò la dipartita dalla band.
Vi starete, giustamente, chiedendo come possa essere colpa di Trump, ma seguitemi. Faccio il giro lungo, ma ci arrivo. Prima, però, devo raccontarvi la favola degli antifascisti in America.
C’era una volta Charlottesville, una graziosa cittadini di poco più di 50.000 abitanti, sede dell’Università della Virginia. Un giorno del 2017, i politici locali iniziarono a discutere della possibilità di rimuovere dalla città memoriali e monumenti alla storia dei Confederati, vale a dire quei sette stati che nella guerra civile Americana combatterono tra le altre cose per mantenere in vita la schiavitù, e di cui Robert E. Lee fu eletto Generale Comandante nel 1865. Proprio la statua di quest’ultimo poteva essere vittima di questo genocidio di statue a personalità storicamente discutibili (il momumento verrà sciolto nei prossimi mesi). Tali considerazioni non erano, però, spuntate fuori dal vuoto cosmico. Due anni prima l’America aveva assistito all’ennesima sparatoria, questa volta a spese della comunità afro-americana quando un suprematista bianco di 21 anni, Dylan Roof, aprì il fuoco in una chiesa di Charleston (Carolina del Nord) uccidendo 9 persone e ferendone una. Dylan era un fanatico dell’ideologia neonazista e del suprematismo bianco americano, tanto fedele proprio alla bandiera confederata.
Non appena si sparse la voce della possibile rimozione di un Generale fan dello schiavismo, una serie di gruppi di estrema destra decisero di organizzare una manifestazione proprio a Charlottesville nell’agosto del 2017. Donald Trump era stato da poco eletto Presidente degli Stati Uniti d’America e aveva già collezionato un’invidiabile serie di dichiarazioni razziste e sessiste, ma avrebbe compiuto un altro dei suoi capolavori da lì a breve. Se avete visto BlacKkKlansman di Spike Lee, forse ricorderete che alla fine del lungometraggio il regista utilizzò immagini di repertorio dell’incidente avvenuto durante la manifestazione, quando un’auto guidata da un suprematista bianco investì un gruppo di pacifici contro-manifestanti ferendone 19 e uccidendone una. I fatti di inaudita gravità scossero tutti e qualsiasi Capo di Governo avrebbe espresso dissenso senza esistazione, ma non Donald Trump. Nonostante non vi fossero prove di violenza da parte dei contro-manifestanti, Trump ne fece allusione puntando il dito contro gli antifascisti, meglio conosciuti come ANTIFA. Una costante di Trump e della sua narrazione non è dire la verità, ma far credere che lo sia. Non importa se verrà dimostrato il contrario, perché nel frattempo Fox News lo avrà riportato e i suoi elettori avranno aggiunto un nuovo tassello alle teorie complottiste.
Da quel giorno in poi i media e la popolazione americana iniziarono a interessarsi a questi benedetti ANTIFA e ne parlo al plurale perché non è un’organizzazione. Potremmo al massimo definirlo un movimento, così come lo è il Black Lives Matter, che non ha una sua struttura ed è diviso in piccole fazioni e gruppi che agiscono e comunicano sulla base di un sentimento antifascista, con possibilità di appartenenza all’idealogia anarchica e alla filosofia marxista. (Aiuto, i Comunisti!) Chiariamoci, spesso non portano fiorellini alle manifestazioni a cui partecipano e tendono a utilizzare la tattica del Black Bloc. Ma, come riportato dal Daily Caller (un sito di informazione conservatrice) tra il 2006 e il 2016 la percentuale stimata di uccisioni a base politica commesse da estremisti di destra era tra il 73 e il 92 percento, mentre il conteggio nell’area di estrema sinistra era fermo a 0.
Nonostante ciò, si aprirono le danze della cosìddetta falsa equivalenza tra movimenti di estrema destra e di estrema sinistra.
Ma cosa facevano nel frattempo Mumford e i suoi non-figli? Come ogni band che si rispetti pubblicavano il disco diverso : Delta, l’ultimo con il nostro Winston che forse poteva già intravedere la sua dipartita quando lui, suonatore di banjo, si trovò a strimpellare un paio di accordi nel disco rock della band. L’album non fu proprio un gran successo, ma mi piace sottolineare una dichiarazione di una certa rilevanza proprio di Winston Marshall all’ NME quando dichiarò essere stanco dei musicisti che parlano di politica. Ok, Winston.
Ma torniamo agli antifascisti. È l’estate del 2020 e gli Stati Uniti, successivamente all’uccisione di George Floyd, sono territorio di proteste in tutta la nazione. Portland (Oregon) è il palcoscenico più importante e ogni giorno, per due mesi, si scontrano manifestanti pacifici, manifestanti un po’ violenti, forze di polizia federali che nessuno sa esattamente cosa siano e da dove escano fuori, e suprematisti bianchi. L’Oregon è uno stato con una popolazione per l’85% bianca, ma è proprio Portland a fare da bilanciere grazie alla sua identità anti-conformista, dichiaratamente di sinistra e tecnicamente la capitale mondiale degli Hipsters.
Naturalmente Donald non perse occasione per urlare al terrore Antifa, aizzando quindi l’opinione pubblica e i giustizieri della notte che raggiunsero la città per creare ulteriori disordini. Purtroppo le cose degenerarono e non di poco, fino ad arrivate alla morte di un suprematista bianco proprio per mano di un Antifa e, per la prima volta, quella statistica di cui vi parlavo prima vide una modifica nel numero di vittime degli estremisti di sinistra.
A quel punto Trump alzò la posta. È periodo di campagna elettorale e bisogna spararla grossa: dichiarare Antifa un’organizzazione terroristica, alludendo tra le altre cose a una vicinanza tra loro e Biden (intravedete anche voi il livello di follia?).
A questo punto, permettetemi di introdurre un altro protagonista della favola antifascista: Andy Ngo. Trattasi di uomo di ideologia conservatrice, meglio conosciuto come provocatore e giornalista con scarsa credibilità a causa dei suoi racconti parziali e fuorvianti (di lui si sospetta, inoltre, una vicinanza al gruppo di suprematisti bianchi dei Patriot Prayer). Andy Ngo è, però soprattutto famoso per la sua ossessione nei confronti degli Antifa al punto tale da aver scritto un libro su di loro dal titolo Unmasked. Un libro di cui il Los Angeles Times ha detto che “aiuterà gli Americani a comprendere Antifa esattamente come Borat ci ha aiutati a capire il Kazakistan”. Un luminare, quindi.
Siamo nel Marzo 2021 e qualcuno su internet notò il seguente tweet di Winston Marshall dei Mumford and Sons:
Congratulazioni @MrAndyNgo, finalmente ho avuto il tempo di leggere il tuo importante libro. Sei un uomo coraggioso.
Per essere uno che non amava i musicisti che parlano di politica, Winston era ben schierato. Purtroppo per lui, però il tweet scatenò il classico backlash. La critica riguardava il suo apprezzamento per un libro di natura conservatrice, tecnicamente fazioso e aderente a una narrazione per lo meno controversa, che tende ad equiparare individui che si identificano in un’ideologia antifascista alle organizzazione di estrema destra e al suprematismo bianco.
I media ripresero il caso e qualche giorno dopo Winston pubblicò un tweet di scuse, dicendo che si sarebbe preso del tempo lontano dalla band.
Fermi, colpo di scena: un paio di mesi dopo tornò sui suoi passi, confessando in una lunga lettera su Medium di non volersi scusare per quell’opinione. Dopo averci rifletutto, decise di lasciare la band per essere libero di dire quello che pensa senza che vi siano ripercussioni sulla band, sulle vite dei suoi compagni d’avventura e sul brand. Il B R A N D. Tenete a mente questa parolina perché tornerà.
A quel punto i Mumford and Sons, ormai rimasti in tre, scrissero un tweet di saluto, augurandogli il meglio, esprimendo amore, arrivederci e grazie. (Winston ad oggi ha dichiarato che i compagni avrebbero provato a convincerlo a restare e che tra loro non ci siano problemi, ma finora nessuno di loro ha pubblicamente dichiarato alcunché sul fatto)
Winston, invece, che non vuole essere censurato dal tribunale dell’internet è andato a fare un piagnisteo su tutti gli organi di stampa conservatori presenti proprio su internet. Il solito piagnisteo delle autoproclamatesi vittime della cancel culture. E ci tengo a sottolineare che la censura è stata così spietata che tutto questo materiale di cui parlo è liberamente accessibile a me, a voi, ai vostri cugini, a Mumford e a tutti i suoi figli.
Voglio chiarire, però, che Winston Marshall non sembra essere né un Qanon né un fascista e, anzi, leggendo la sua lettera e ascoltando le sue interviste, sembrerebbe essere un ragazzo abbastanza equilibrato. Si è schierato contro le organizzazioni di estrema destra, dichiarandosi politicamente di centro con tendenze liberali (nel senso americano della parola). Un Renzi della musica, se volete. Ma tutto ciò e il suo fare pacato non bastano a nascondere l’appartenenza, anche se quasi involontaria o non pre-meditata, a quel gruppo di conservatori la cui unica missione è lamentarsi della cancel culture, spesso creando loro stessi il caso di cui si lamentano.
Non c’è niente di assurdo nel fatto che qualcuno su Internet si sia indignato del fatto che si sia schierato con un provocatore bugiardo come Andy Ngo. Solo due mesi prima il Campidoglio degli Stati Uniti era stato preso d’assalto da sostenitori di Trump ed estremisti di destra (che non sempre sono la stessa cosa) e molta della narrazione conservatrice aveva sostenuto, fino a prova molto contraria, che i responsabili dell’insurrezione fossero gli Antifa. Perciò, quando Winston ha condiviso su twitter (e non nel salone di casa sua) l’apprezzamento per quel libro dall’accuratezza discutibile, ci si poteva aspettare che qualcuno potesse rispondere e che forse ci sarebbero state delle conseguenze.
Le conseguenze hanno, naturalmente a che fare con i soldi. Come sostiene lui, qualcuno nel suo ambiente di lavoro avrebbe fatto pressioni nei suoi confronti, spingendolo in prima istanza a quel tweet di scuse in cui lui, alla fine, ha ammesso di non credere portandolo a preferire una vita lontano dalla band piuttosto che a non esprimere pubblicamente le sue idee.
Bene, Winston. Hai fatto una cosa che potremmo quasi definire coraggiosa, se non consideriamo, però, che sei ricco di famiglia. Il padre, Sir Paul Marshall è un investitore a capo di uno dei fondi speculativi più grandi del mondo. Ha un patrimonio di 630 milioni di sterline e finanzia, tra le altre cose, piattaforme mediatiche di centro e centro-destra.
La cosìddetta cancel culture nei suoi confronti avrebbe, quindi, potuto danneggiare la carriera della band. Winston sostiene, infatti, che molti colleghi abbiano pubblicamente espresso disdegno per le sue parole - anche in modo offensivo - e che le radio abbiano minacciato l’esclusione delle loro canzoni dall’airplay. Osservando i pattern in casi come il suo, tutto ciò risulta più che plausibile e ci riporta alla parola brand
Il giornalista Ezra Klein poco tempo fa ha scritto del tema della cancel culture in relazione all’economia. Quello che succede spesso (ma non sempre) è che le conseguenze ricadano sul profitto. Le persone rischiano il licenziameno o di essere invitate alle dimissioni per proteggere il brand. Ciò può generare timore futuro nel condividere le proprie idee pubblicamente. Naturalmente questo non favorisce un clima di conversazione disteso, ma il tango si balla in due e vorrei far notare che spesso e volentieri la reazione di chi è vittima del backlash sui social media sia automaticamente di chiusura invece di apertura. La sensazione è che chi aderisce alla narrazione di cancel culture/wokeness=censura non faccia altro che lamentarsi del fatto che non può esprimere un’opinione, mentre tra l’altro continua a farlo. Urlano al loro diritto di libertà di parola che però sembra quasi tradursi in liberi da conseguenze.
Winston è un ragazzo privilegiato. È giovane, bianco, ricco e famoso. Ha potuto lasciare una band di enorme successo mondiale per andare in giro a discutere di quanto sia pericolosa l’estrema sinistra e del fatto che lo volessero censurare, ma la verità è che ci sta raccontando una storia bizzarra alimentata da quattro anni di Presidenza Trump. Un signore che tra le tante malefatte, mandava messaggi di sostegno neanche tanto segreti ai gruppi di suprematisti bianchi, razzisti, misogini e violenti.
Nessuno ha voluto censurarti, Winston. Forse qualcuno ti ha fatto notare che il tuo sostegno a Andy Ngo aveva un non so che di complottista, anche se non te ne sei reso conto. E purtroppo il mondo è ingiusto. È così ingiusto che oggi, quelli che prima venivano zittiti o parlavano a bassa voce, riescono ad alzarla questa benedettissima voce. Lo fanno per suggerire che forse ti stai schierando dalla parte sbagliata della storia. E questa voce può essere fortissima. Talmente forte da far paura
I brand hanno paura. Hanno paura di perdere il capitale. Quello stesso capitale che tu, tuo padre speculatore, e i tuoi amici conservatori amate e volete difendere dalla violenta sinistra, a cui invece questa storia del capitale non è mai davvero andata giù.
Winston, la vedi l’ironia? Io sì, ma non ce la faccio a ridere.