C’era un tempo in cui ogni anno ci indignavamo per il semplice fatto che Leonardo DiCaprio non avesse ancora vinto un Oscar. Non so voi, ma ho ancora nostalgia di quei giorni. Ricordo, infatti, che l’anno successivo alla sua vittoria per l’interpretazione di un combattitore di orsi in The Revenant (2015), mi sentii quasi persa nei giorni precedenti alla cerimonia. Ora che Leo era un Academy Award Winner, bisognava trovare un nuovo motivo per cui fare polemica. Per nostra fortuna quell’anno pensarono bene di mettere involontariamente in scena quel leggendario caso La La Land vs Moonlight, in cui il primo fu erroneamente annunciato come vincitore di Miglior Film, finché gente random iniziò a camminare sul palco, mentre i produttori ringraziavano e all’improvviso Warren Beatty arrivò al microfono dicendo una cosa tipo: “scusate ho sbagliato, c’era scritto Emma Stone e ho detto La La Land” (aka Warren che a 80 anni non vuole prendersi alcuna responsabilità).
Gli Academy Awards sono quella cosa che in America definirebbero ‘messy’. Sono problematici, un gran casino, ingiusti, importanti, noiosi ed eccitanti, indispensabili ma-anche-sticazzi.
Proprio in quegli anni fantastici in cui DiCaprio era ancora a mani vuote, noi indignati andavamo in giro a dire che “alla fine non è un Oscar che fa un attore, ma una carriera”. E, per coerenza, non appena ne vinse uno andammo in giro ad accendere lumini alla madonna, a festeggiare e urlare “Giustizia è fatta!!!”
Vincere un oscar a Hollywood è la definizione di mano santa dal cielo. Quando ne hai uno, ad esempio, puoi far sì che nel trailer o poster dei tuoi prossimi film i produttori possano affiancare al tuo nome Vincitore del premio Oscar o addirittura Nominato al premio Oscar, e state sicuri che qualcuno ci casca sempre: “Ah, beh…allora deve essere bello”. Peccato che oltre al pubblico ci caschi pure l’asino. Un asino di 20 tonnellate che fa un male cane.
Gli Oscar sono politica. Dietro le quinte ci sono una marea di strette di mano, sussurri, finte amicizie, media training e così via. Un vero e proprio lavoro di cui Harvey Weinstein (sì, quel signore condannato a 23 anni di carcere per essere un creep) era il grande stratega. Quella che oggi conosciamo come Oscar Campaign (una sorta di campagna elettorale) è praticamente una sua invenzione. Bisogna, infatti, mettere in piedi delle strategie promozionali e politiche che portano alla vittoria non necessariamente il migliore, ma quello con più soldi o - se volete - con la più importante faccia da culo (scusate il francesismo). Questo non significa che grandi film o performance o professionalità non abbiano vinto e/o non vinceranno la statuetta; è chiaro che la lista dei meritevoli è molto più lunga di quella dei non-meritevoli, ma considerato il fatto che noi umani occidentali siamo dei professionisti nel dare valore alle cose negative, sono qui per aderire alla narrazione e fare il mio breve ma intenso excursus delle vittorie più ingiuste secondo il mio parere di grande fan di Leonardo DiCaprio e Gravity.
Ma non temete. Ho in serbo per voi un barlume di speranza.
Il Discorso del Re (Oscar 2011) - Miglior Film / Miglior Sceneggiatura Originale
Vorrei partire subito con quella cosa che ancora oggi, dopo dieci anni, mi fa ribollire il sangue. Trattasi dell’anno in cui il film sulla balbuzie del padre della Regina Elisabetta riuscì nella titanica impresa di battere, senza alcun apparente motivo, uno dei migliori film di sempre: The Social Network. E attenzione: non una, non due, ma tre volte. Passi pure Miglior Attore, ma Miglior film e Miglior Regista (Tom Hopper invece che David Fincher) sono tuttora un grattacapo che però si è risolto con la storia. The Social Network è una lezione di cinema. Il Discorso del Re, un buon film da “vabbè rivediamolo mentre scrollo su twitter”.
Eddie Redmayne (Oscar 2015) - Miglior Attore Protagonista per La Teoria del Tutto
Userò lui come capro espiatorio di una pratica molto comune: interepretare in un biopic un personaggio storicamente importante e con una storia singolare e dolorosa (vedi anche Colin Firth nel Discorso del Re. Scusate, non mi va giù).
Questo film ci racconta il genio di Stephen Hawking e vede un’ottima interpretazione di Eddie Redmayne. Purtroppo per lui, però, noi nerd degli Oscar riconosciamo subito un cosìddetto Oscar Bait quando ne vediamo uno. Si tratta, infatti, di uno di quei casi in cui l’obiettivo principale del film (se non l’unico) è vincere almeno un Oscar e si trasforma, quindi, in un’operazione ad arte che perde di romanticismo. Il motivo per cui il mio ditino sia puntato sul povero Eddie e non una Renée Zellweger qualsiasi in Judy, è che questa vittoria è arrivata a discapito di Michael Keaton in Birdman. Ad aggiungere un pizzico di ingiustizia ci fu anche quel triste momento in cui si intravide in diretta lo stesso Keaton rimettere nel taschino il suo discorso di ringraziamento, mentre era costretto a stare in piedi ad applaudire l’altro. Dopo anni di onorata carriera in una marea di film già cult, gli addetti ai lavori (e lui stesso) erano sicuri fosse arrivato il suo momento, ma questo ragazzotto inglese, con chissà quante altre occasioni future, salì le scale al suo posto e in quell’istante sapevamo tutti che per Keaton, forse, non si sarebbe più presentata un’altra possibilità. E per questo, Eddie, non ti perdonerò mai.
Green Book (Oscar 2019) - Miglior Film / Miglior Sceneggiatura Originale
Non saprei da dove iniziare. Servirebbe un libro, ma proverò a essere sintetica: assolutamente no-non esiste proprio-voi siete pazzi.
Il 2018 verrà ricordato come l’anno in cui gli afroamericani hanno dato una lezione socio-culturale nel cinema e, finalmente, il pubblico ha ascoltato. E sembrava lo stesse facendo anche l’Academy nominando, appunto, Black Panther e BlacKkKlansman. Questa favoletta, però, è stata interrotta quando invece di assegnare la statuetta a uno dei due film (o Roma di Cuarón) la scelta è ricaduta su Green Book: un film che rappresenta proprio quella narrazione dei neri in America che Hollywood ha sfruttato per anni, e che loro stessi vogliono cambiare. Green Book è la storia ‘vera’ di un’amicizia tra un buzzurro italo-americano e un raffinato jazzista nero vittima del razzismo dell’America di Jim Crow. Come moltissimi film del passato, porta sullo schermo la figura del ‘salvatore bianco’, vale a dire una storia di razzismo in cui la ‘vittima’ si riscatta grazie all’aiuto di un bianco (che rappresenta, però, anche il carnefice). L’argomento ha mille sfumature, ma in un anno in cui Black Panther aveva sbancato i botteghini di tutto il mondo, con uno spirito di autodeterminazione culturale con tanto di racconto afro-centrico, fino ad arrivare ad una giusta, ma inaspettata nomination a Miglior Film, si può dire che il momento in cui Julia Roberts ha pronunciato le paroline ‘Green Book’ ha rappresentato una beffa troppo assurda per essere vera. Per fortuna c’era Spike Lee a rappresentarci uscendo platealmente dal teatro mentre i vincitori salivano le scale.
Come dicevo, però, porto con un me un seme di ottimismo.
L’anno successivo ci fu un lungometraggio che sbancò la cerimonia, rappresentando quel raro caso di film straniero nominato agli oscar, amato da tutti e che riesce davvero a vincere.
Forse avrete già capito che sto parlando di Parasite.
Nel 2020 sembrava che gli Oscar avessero fatto pace con loro stessi e in molti saltammo di gioia all’annuncio di Jane Fonda. Lei stessa capì la solennità e, da grande attrice qual è, si fermò e sospirò leggermente prima di annunciarlo.
Il boato degli astanti. La felicità del regista Bong Joon-ho - il quale ci aveva già deliziato durante le premiazioni precedenti con la sua faccia gioiosa e incredula - e di tutta la squadra. Era tutto molto bello.
La telecamera inquadrava la platea estasiata e stavolta non sembrava stessero recitando.
In un mondo sempre più polarizzato, non pareva vero che un film coreano che racconta in modo così geniale una storia tanto tragica, avesse unito tutti, compresa l’Accademia. Rappresentava una speranza per questa manifestazione ormai così finta e deludente.
E forse vi sembrerà infantile e superficiale, ma quel momento rappresenta il ricordo più felice che ho del 2020, e per questo I would like to thank the Academy.